Scritti critici
SPAZI INTERIORI E IMPRESSIONI DISSOLTE: UN LUNGO PERCORSO DI SPERIMENTAZIONE
Parlare del lavoro di Guido Pigozzi significa parlare del lavoro di un artista poliedrico, che alla professione d’architetto affianca da sempre la sua prima passione, la pittura, dando notevoli risultati nell’una e nell’altra disciplina.
La sua opera, vasta e variegata, vale la pena di essere presa in considerazione accanto a quella di artisti veronesi a lui contemporanei, formatisi nello stesso ambiente e legati ad analoghe influenze ma dai quali, tuttavia, l’artista non appare condizionato.
Il suo percorso, non rientrando in una precisa corrente, sembra piuttosto muoversi in parallelo con la sua vita personale, le cui esperienze scaturiscono in una produzione numerosissima di opere all’apparenza amatoriali ma che nascondono in realtà una profonda conoscenza delle tecniche ed un’innata voglia di sperimentazione.
Il suo percorso inizia molto presto, quando, a tredici anni, inizia a frequentare il cugino Albano Corradini, che di poco più grande già studiava pittura, esercitandosi con vedute dal vero della Lessinia. Sulle sue orme dipingerà i primi quadri, anch’essi dedicati ai paesaggi di Tregnago ma che andranno man mano distanziandosi da quelli di Albano nello stile; questo tema, che lo accompagnerà poi durante gli anni del liceo artistico, gli diverrà tanto caro da rimanere una costante per il resto della sua vita, rappresentando uno dei motivi che puntualmente riemergono nella sua opera.
Dopo il liceo, indeciso se proseguire con gli studi di Belle Arti o d’Architettura, deciderà per quest’ultima, continuando però a dedicarsi saltuariamente alla pittura, e nel 1983 si laureerà all’Università Iuav di Venezia con una tesi sul teatro con il Professor Aldo Rossi. Nel 1985 inizierà ad esercitare la professione d’architetto, realizzando lavori interessanti soprattutto nell’ambito della ristrutturazione. Accanto alla professione, intanto, la ricerca artistica proseguirà costantemente ed i quadri di paesaggio andranno evolvendo, grazie anche alla contaminazione con le idee architettoniche. La svolta avvenne nel 1990 quando, iscrittosi alla Società Belle Arti di Verona, ebbe la fortuna di conoscere personaggi di rilievo nel mondo artistico veronese, alcuni dei quali acquisteranno da lui delle tele permettendogli di promuovere la sua opera. Invitato a partecipare ad alcune mostre collettive, nel 1991 inaugura la prima mostra personale sul paesaggio della Lessinia, ad Erbezzo (VR), la mostra è presentata in un semplice pieghevole dal prof. Dino Formaggio che abita ad Illasi di Verona, il critico d’arte Dino Formaggio; vedendo in lui del talento, deciderà di curare una sua personale alla Galleria Toni de Rossi di Verona (dal realismo poetico alla poetica dell’immaginario,1992), dove saranno esposti i dipinti allora più recenti, una serie che prende a soggetto l’Italcementi di Tregnago e nelle cui tele il critico scorge una tappa fondamentale nell’estetica dell’artista.
Un nuovo linguaggio nasceva dall’incontro tra la pittura e l’architettura, conducendo a poco a poco l’artista ad un nuova fase, segnata da un dialogo costante e continuo tra le due arti. Appare evidente, confrontando alcuni dei dipinti dell’85-86 con gli edifici realizzati successivamente da Pigozzi, come già alcuni lavori di quegli anni siano anticipazioni di successivi progetti architettonici, il cui disegno segue le linee di un’idea che torna a riproporsi a volte inconsapevolmente alla memoria dell’artista: è il caso ad esempio del Cimitero di Tregnago, il cui progetto rispecchia senza volerlo un precedente dipinto, o delle case con taglio moderno. Ora, nella serie di dipinti sul cementificio, le due discipline arrivano a convivere in uno stesso lavoro e la loro relazione si fa vero e proprio fulcro, se non origine stessa, dell’opera. In questi quadri, partendo da semplici ritratti dal vero di un edificio al quale si sentiva particolarmente legato, l’autore ragiona sull’essenza architettonica del manufatto, svolgendo un’indagine basata su un susseguirsi di moduli ripetuti che arriveranno, col tempo, a sfaldarsi poco a poco andando verso l’astrazione: negli ultimi quadri della serie l’edificio quasi sembra dissolversi, prendere fuoco, in un paesaggio apocalittico e a tratti surreale.
In queste stesse tele continua anche la sperimentazione tecnica e se da una parte accanto all’olio subentra il bitume, che, diluito, contribuisce a creare quell’evanescenza che caratterizza i dipinti, dall’altra macchie di colore isolate sulla tela appaiono ad un tratto vive agli occhi dell’artista, che nel corso del processo pittorico le tramuta in animali o elementi fantastici, contribuendo al tono straniante generale.
Da qui in poi il percorso dell’autore evolverà sempre più verso soggetti astratti, mentre accanto a quadri monocromi riappaiono periodicamente e costantemente i temi cari all’autore: i paesaggi della Lessinia, le caratteristiche torri Colombare, il cementificio.
Una produzione dunque dai soggetti eterogenei, che spazia dal figurativo al non figurativo e che l’autore non si stanca mai di reinventare mediante l’utilizzo di nuove tecniche: acquerelli, olio e bitume sono trattati nei modi più svariati, il colore a tratti è steso in velature che si dissolvono, altre volte si fa più materiale, acquistando corpo e densità sotto pesanti colpi di spatola, mentre al posto della tela troviamo talvolta materiali inusuali come vecchie lastre di metallo recuperate in antiche trincee. Le opere di Pigozzi, numerosissime, segnano quindi le tappe evolutive di un lavoro continuo, costante, nel quale a notevoli traguardi architettonici s’affianca una ricerca pittorica non meno viva e tuttora in evoluzione.
Maria Teresa Medici